La notte del 9 ottobre 1963 furono sufficienti 4 minuti per spazzare un intero paese, cancellare dal mondo 1.917 vite e far vacillare per sempre una certa idea di modernità e di fiducia nel progresso.L'Italia del 1963 era un Paese agli albori della sua stagione più florida - il boom economico, il benessere dilagante - ma con il Vajont fu chiaro che quella modernizzazione repentina e disordinata nascondeva un lato oscuro e feroce. Quella del Vajont non fu una tragedia, come per troppi anni è stata definita. Fu una vera e propria strage prodotta dall'incuria dell'uomo, da istituzioni irresponsabili e conniventi, dai dirigenti della Sade, da una corsa acritica verso una modernità scellerata e senza progresso. Ne pagarono un prezzo altissimo le comunità e i paesi del Vajont, a cominciare da quella di Longarone. E lo pagarono, almeno fino al momento della strage, le poche voci critiche come quella di Tina Merlin, che fu costretta a difendersi in Tribunale per i suoi articoli di denuncia.
E hanno continuato a pagare tutto questo, negli anni a venire, i superstiti, i sopravvissuti, costretti a subire l'onta di un evento che nella memoria collettiva e in quella delle istituzioni ha avuto un posto di second'ordine rispetto ad altri avvenimenti altrettanto drammatici della storia d'Italia. Forse perché quella strage sta alla generazione del boom economico come l'affondamento del Titanic sta a quella della belle epoque: eventi che ci hanno mostrato il lato oscuro di un'epoca, il dato tragico e drammatico insito in esse, e per queste necessarie di una qualche forma di rimozione o di sminuimento.
E invece oggi il Vajont avrebbe bisogno d'essere ricordato per fare da monito rispetto anche a quello che è successo in questi 50 anni: perché, come ha detto uno studio del WWF di qualche tempo fa, la cementificazione della penisola, i corsi d'acqua "deviati", hanno prodotto nuove aree di rischio, un fatto che riguarda circa il 10% del territorio nazionale. Basta vedere cosa accade nel nostro Paese ogniqualvolta vi è una forte perturbazione, per registrare ingenti danni alle persone e alle cose, come è accaduto anche lo scorso fine settimana. Bisogna allora considerare la manutenzione del territorio e la difesa idrogeologica come una priorità strategica del Paese. L’abbiamo ribadito anche in una mozione che io stesso ho sottofirmato e che è stata approvata dal Senato.
E bisogna combattere l'abusivismo, che ancor oggi è prassi quotidiana, e che invece andrebbe inquadrato e sanzionato per la creazione di pericolo nei confronti della pubblica incolumità. Sarebbe il modo migliore per onorare la memoria di quanti persero la vita e tutti quelli che hanno vissuto la loro esistenza piangendo l'assenza dei propri cari. Così come lo sarebbe anche offrire il giusto riconoscimento per tutti quelli che nei giorni terribili susseguitisi alla strage, si adoperarono per salvare centinaia di vite e per dare degna sepoltura ai morti. I volontari, i militari, i semplici cittadini che si ritrovarono ad affrontare l'inimmaginabile e lo fecero con coraggio e abnegazione. La faccia bella di questo nostro Paese, gli angeli del fango, simili a quelli che solo pochi anni dopo dal Vajont sarebbero corsi nella Firenze distrutta dall'alluvione per salvare i suoi cittadini, la sua bellezza e la sua storia.
E ricordando il Vajont, il mio pensiero non può non andare alla tragedia di Stava, accaduta il 19 luglio 1985, con le sue 268 vittime. Anche questa una tragedia evitabile. Ricordo benissimo il momento dell’annuncio della notizia e provo ancora quella vergogna che ci ha preso tutti quando ci siamo accorti di aver spezzato il delicato equilibrio che ci unisce alla natura, quando ci siamo accorti di essere andati troppo oltre. Ho ben scolpita nella mente l’incisione sul monumento donato dalle popolazioni del Vajont ai “superstiti della Val di Stava affratellati nell’identica sciagura”. Le tragedia del Vajont e di Stava sono lì a ricordarci gli errori ed a farne memoria, ma dall’altra, grazie anche all’opera meritoria di tanti ed in particolare della benemerita Fondazione Stava 1985, sono lì a significare la volontà di non ripeterli. Ma credo sia giusto rivolgere un ringraziamento anche a chi ha consentito la ricostruzione, perchè ricostruire significa tornare a vivere. I bambini e i giovani di allora, attoniti di fronte a tanta violenza e a un dolore incolmabile, oggi ritrovano paesi in cui vale ancora la pena di vivere. Per questo l'auspicio è che questa non sia solo una ricorrenza per un doveroso ricordo, ma sia anche l’occasione per ripartire su una strada più rispettosa della Natura e più attenta alla sostenibilità, per pensare e costruire un Paese più sicuro, un Paese dove l'innovazione fa tutt'uno col progresso e dove i morti e le tragedie non passano invano.